di Mauro Gemma
L'esempio dell'Ucraina
In una recente intervista concessa all’agenzia russa Interfax, il Sottosegretario statunitense per gli Affari Politici William Burns torna sulla questione dell’adesione di Ucraina e Georgia alla NATO, ribadendo la tradizionale posizione USA, secondo cui “anche Ucraina e Georgia hanno il diritto di essere membri NATO” dal momento che “ogni nazione sovrana ha diritto di prendere la propria decisione e di scegliere i propri alleati”.
Allo stesso tempo però, Burns precisa che al momento “l’Ucraina e la Georgia non sono pronte per entrare a far parte della NATO”, subordinando la decisione definitiva in merito alla richiesta di adesione al fatto che “tutti i membri della NATO siano d’accordo, e che i cittadini di quel paese appoggino la decisione”.
Non sfugge certamente che la relativa prudenza dei più recenti approcci “ufficiali” alla questione dell’ulteriore allargamento della NATO ad est, che si coglie, oltre che in quella di Burns, anche in altre recenti dichiarazioni di politici e diplomatici statunitensi, è in larga parte dovuta agli esiti “disastrosi” per l’amministrazione USA della crisi caucasica della scorsa estate, conclusasi con il rovescio della provocazione georgiana alle frontiere della Russia, in seguito alla dura e vittoriosa reazione armata del Cremlino.
E’ in particolare a partire da quel momento, che gli approcci USA all’allargamento della NATO hanno dovuto ovviamente tener conto (come, afferma Burns nella sua intervista) del fatto che evidentemente non tutti i partner europei della NATO (in particolare, Germania, Francia e la stessa Italia, che hanno svolto un ruolo relativamente autonomo nella ricerca di una composizione della crisi tra Russia e Georgia) appaiono disponibili ad acuire gli elementi di tensione con Mosca nell’attuale momento di profonda crisi economica che attraversa il “vecchio Continente” e in una situazione di acuta dipendenza dalle risorse energetiche del mercato russo.
Ma tutte queste considerazioni ci permettono di affermare con sicurezza che ci troviamo di fronte a una frenata o, addirittura, al definitivo arresto dei piani di allargamento ad Est del sistema di alleanze militari e politiche imperialiste, che ebbero proprio in esperti e potenti sostenitori delle amministrazioni democratiche USA passate e presente (Brzezinski, Soros, Albright) i principali ispiratori e strateghi?
Uno sguardo più attento all’evolversi della situazione nelle aree interessate, dovrebbe indurre a maggiore prudenza molti entusiasti sostenitori di una presunta “vocazione” della nuova amministrazione USA alla composizione dei conflitti tuttora in corso con la Russia e con altri protagonisti della scena internazionale, i quali danno per scontata la sua accettazione incondizionata di un nuovo orizzonte multipolare delle relazioni internazionali, in cui non ci sia posto per le scelte avventurose che hanno caratterizzato la precedente presidenza Bush.
Se ci limitiamo, ad esempio, ad esaminare alcuni sviluppi degli avvenimenti in Ucraina, il grande paese europeo considerato da sempre strategico per gli interessi USA e oggetto, da lunghi anni, di pressioni e condizionamenti esterni, possiamo trarre la conclusione che il tentativo di “forzare i tempi” della sua integrazione nell’orbita occidentale non si è certo definitivamente arrestato, che le speranze di un’accelerazione dei progetti di “colonizzazione” e asservimento militare a suo tempo intrapresi continuano ad essere coltivate, approfittando anche della profonda crisi economica in cui versa l’ex repubblica sovietica, sull’orlo della bancarotta.
Anche il notevole sviluppo del movimento anti-NATO (per iniziativa, in particolare, del Partito Comunista di Ucraina e di altre forze di sinistra), a cui si è assistito in questi ultimi giorni, con grandi manifestazioni in diverse parti del paese (in particolare in Crimea, scenario potenziale di un pericoloso scontro tra le forze navali di Mosca e di Washington), sta lì a dimostrare che la consapevolezza del pericolo di definitivo assoggettamento al “carro americano” è ben presente in larghi strati dell’opinione pubblica ucraina, che non ha certo abbassato la guardia, neppure dopo l’avvento di Obama alla presidenza.
Rivelatrice dell’incertezza di un futuro di “distensione” della politica USA in quest’area, appare, ad esempio, l’intervista al quotidiano francese Le Figaro, in cui, nei giorni scorsi, il principale ispiratore della politica estera “democratica” verso il mondo ex sovietico, Zbigniew Brzezinski, si è espresso per l’apertura di “sedi di dialogo” con Mosca, ma ha anche precisato che l’approccio negoziale deve avvenire nel contesto di una concezione delle relazioni con la Russia e gli stati dell’ex URSS, che non lascia spazio a dubbi interpretativi: “L’inizio del dialogo con la Russia non può avvenire a costo di limitare le aspirazioni di quei paesi che vogliono aderire alla NATO – come l’Ucraina e la Georgia – soprattutto perché l’Ucraina, in quanto membro della NATO, spianerebbe la strada alla democratizzazione della Russia”. Ancora una volta, Ucraina, Georgia (e altri stati dell’ex URSS) dirette da elite fedeli ai valori di “missione di civiltà” della potenza USA, integrate militarmente nel blocco imperialista, e garanti degli interessi USA contro una Russia ricondotta a più miti consigli e disposta a trattare (o meglio, a collaborare) alle condizioni imposte. E’, tra l’altro, non privo di significato che l’intervista sia stata diffusa contemporaneamente al diffondersi di voci circa la nomina del figlio dello stesso Brzezinski ad ambasciatore a Varsavia, capitale di un paese che da secoli nutre velleità egemoniche sugli stati slavi europei limitrofi alla Russia (Bielorussia e Ucraina) e che, più di tutti, ha operato, negli ultimi anni, a favore di una politica aggressiva nei confronti dell’amministrazione russa, in perfetta sintonia con gli orientamenti della politica estera USA.
A metà febbraio, nel corso di una visita in Georgia, il portavoce del Dipartimento di Stato USA, Robert Wood, pur con toni meno aggressivi di quelli che caratterizzavano l’era Bush, richiesto di un parere circa un possibile cambiamento dell’atteggiamento della nuova amministrazione Obama nei confronti dell’adesione di Georgia e Ucraina all’Alleanza Atlantica, ha risposto che gli Stati Uniti “sono ancora impegnati nel migliorare e rafforzare le relazioni della NATO” con i due paesi. E ha concluso: “a quanto ne so, non c’è stato alcun cambiamento della posizione rispetto alla dichiarazione di Bucarest (dei leader della NATO, in aprile 2008): è evidente che questi due paesi saranno membri della NATO”.
Un altro segnale che le manovre tendenti ad integrare l’Ucraina nella NATO non stiano subendo rallentamenti viene dalla recente visita (21 febbraio) del vice ministro degli esteri ucraino Volodymyr Handogyi in Romania per consultazioni in merito alle modalità che facilitino l’accesso all’Alleanza Atlantica e la definizione dell’agenda di impegni relativi alla realizzazione delle decisioni assunte nel vertice di Bucarest in relazione all’adesione di Kiev.
Nel frattempo, prosegue incessante la stretta collaborazione degli USA con il governo di Kiev (peraltro alle prese con una drammatica crisi di credibilità presso l’opinione pubblica del proprio paese) per garantire, come sottolinea il 21 febbraio l’analista politico ucraino Viktor Pirozhenko nel sito russo del “Fondo di Cultura Strategica” (http://www.fondsk.ru/article.php?id=1936), “un’adesione silenziosa, non formale alla NATO dell’Ucraina”, che viene considerata “membro de facto dell’alleanza, anche in assenza di una formalizzazione giuridica”. A tal scopo, sottolinea Pirozhenko, è previsto un drastico incremento del numero degli osservatori statunitensi e una sostanziosa crescita dell’appoggio finanziario da parte USA a innumerevoli organizzazioni non governative ucraine (quelle, tanto per intendersi, che hanno svolto un ruolo decisivo nella vittoria della “rivoluzione arancione” alla fine del 2004).
In effetti, pur non essendo formalmente membro della NATO, con la presidenza di Juschenko, l’Ucraina assolve praticamente agli stessi obblighi previsti per i membri a pieno titolo dell’alleanza militare. Ad esempio, lo spiegamento ai confini della Russia di parte consistente delle formazioni militari di Kiev, ha rappresentato, come ha dichiarato, nel dicembre 2008, il Capo di Stato Maggiore S. Kirichenko, “il rafforzamento delle frontiere della NATO, fino alla linea di confine ucraino-russa”. Un altro passo che sancisce l’adesione di fatto alla NATO si è registrato con l’accordo, siglato dal ministro della difesa Jekanurov, che permette il transito e la dislocazione delle forze e del personale dell’alleanza su tutto il territorio nazionale.
Un altro esempio viene dalla ratifica, il 18 febbraio, da parte del parlamento ucraino dei “protocolli aggiuntivi” al “Memorandum di intesa” siglato dal governo e dalla NATO, che prevede l’installazione di un “Centro di Informazione e Documentazione della NATO” e la dislocazione in tutto il paese di ufficiali di collegamento del blocco militare.
“Se l’Ucraina continuerà ad adempiere fedelmente agli obblighi previsti per tutti i paesi membri della NATO, pur continuando a stare fuori dall’alleanza” – conclude l’analisi di Pirozhenko – “alla fine, i partners europei (riluttanti) degli Stati Uniti si convinceranno che l’Ucraina dovrà essere ammessa, senza osservare le procedure normalmente richieste, ma semplicemente legittimando la situazione esistente”.
http://www.lernesto.it/index.aspx?m=77&f=2&IDArticolo=18040
17 MARZO 1949 - 21 MARZO 2009
MOBILITAZIONE CONTRO LE NUOVE POLITICHE NATO E LE BASI MILITARI, IN RICORDO DELL’OPERAIO COMUNISTA LUIGI TRASTULLI, UCCISO DALLA CELERE DI SCELBA MENTRE PROTESTAVA CONTRO L’ADESIONE DELL’ITALIA ALLA NATO
Il 17 marzo 1949 si ferma per sempre la vita di Luigi Trastulli, ucciso dalla Celere di Scelba lungo le mura della fabbrica che giorno dopo giorno bruciava il suo sudore e la sua fatica nella locomotiva siderurgica della ricostruzione post bellica. Correva veloce quella locomotiva sui binari tracciati dal capitale statunitense. Attraverso un intenso sfruttamento della classe operaia successivo all’epurazione delle avanguardie rivoluzionarie realizzato con i massivi licenziamenti degli anni ’50, nel giro di pochi anni la produzione dell’acciaio avrebbe trainato il Bel Paese nel boom economico degli anni ’60, ma parallelamente avrebbe contribuito al riarmo dell’occidente sotto l’egida americana, alimentando una guerra senza fine giunta fino ai giorni nostri. Corea, Vietnam, e poi Guerra del Golfo, Belgrado ’99, Afghanistan 2001, Iraq 2003, senza contare la militarizzazione dell’intera Europa, prona alla logica della guerra fredda anti URSS ed ora asservita alla logica della “guerra infinita” e allo “scontro di civiltà” propagati dall’amministrazione Bush.
Quel giorno, a Terni, Luigi Trastulli e gli operai delle acciaierie scesero in piazza per opporsi alla stipula del patto Atlantico della nascente NATO, che, in barba alla fresca Costituzione e con il ricordo ancora vivido della tragedia bellica, impegnava l’Italia a farsi suddito ubbidiente e a trasformare l’Italia in una gigantesca testa di ponte dell’imperialismo U.S.A. contro l’URSS, proiettata sul mediterraneo, al controllo del petrolio e del Medio Oriente.
Quel giorno gli operai di uno dei più importanti poli siderurgici d’Italia, non scesero in piazza per i propri bisogni, nonostante l’inferno della fabbrica che caratterizzava la quotidianità delle loro vite. Al contrario compresero che il loro lavoro stava per essere piegato al servizio della guerra, non solo quindi sviluppo ma armi, in un connubio inscindibile tra espansione del capitale e logica della guerra inevitabile.
Quel giorno lo Stato non esitò a farsi assassino, per spaventare e reprimere, pronto a coalizzare tutte le forse reazionarie e fascistoidi che nella storia del nostro paese saranno mobilitate ogni volta che verranno messe a nudo le contraddizioni del potere e rivendicati i diritti fino in fondo.
Quel giorno è oggi, da allora tutto è cambiato ma è anche in qualche modo uguale.
Oggi che assistiamo ad un attacco indiscriminato al lavoro, ai salari, ai diritti (primo tra tutti quello di sciopero) e alle tutele in nome della deregolamentazione, del libero mercato o della “crisi”.
Oggi dopo anni di riduzione della spesa pubblica e di svendita dei beni comuni per fare cassa, s’immettono in un sol colpo miliardi pubblici per salvare le banche transnazionali dalla crisi che lo loro stesse hanno creato speculando.
Oggi che si smantella la spesa sociale, con un passo indietro di decenni, ma si investe massicciamente nelle spese militari e nella sicurezza, creando un allarme interno ed esterno che non serve altro che a delegittimare ogni movimento sociale, ogni sacrosanta resistenza alle pulsioni autoritarie di una democrazia in decomposizione.
Oggi come allora, le grandi mutazioni del capitale, prima espansive, ora di crisi, si accompagnano con la saldatura tra pochi interessi privati e rilancio del militarismo, con il peace keeping a senso unico (vedi Libano 2006), con la guerra preventiva inventata da Bush ma sposata anche dai “progressisti” sotto il nome di polizia internazionale.
Oggi come allora, anche a Terni il 21 marzo 2009 scenderemo in piazza, nell’ambito del programma internazionale di mobilitazione contro l’intensificazione della NATO e le basi militari, lanciato dal World Social Forum di Belem e dalla rete NO WAR.
Non per commemorazioni rituali, ma per strappare la memoria dalle celebrazioni mistificate che chiamano “morti per la pace” le esecuzioni “involontarie” di uno Stato troppo spesso al servizio dei potenti e avverso all’autodeterminazione degli individui, allora come oggi.
Allora come oggi, perché nel ricordo del 17 marzo del 1949 e delle molte altre “morti della NATO” che tra il ’49 e il ’51 colpirono il vasto movimento di protesta dei lavoratori in tutta Italia, come in quelle successive degli anni ’70 ed ’80, delle stragi di stragi di stato e delle esecuzioni di compagni/e, abita la memoria e la lotta del nostro presente.
Il 17 marzo 1949 si ferma per sempre la vita di Luigi Trastulli, ucciso dalla Celere di Scelba lungo le mura della fabbrica che giorno dopo giorno bruciava il suo sudore e la sua fatica nella locomotiva siderurgica della ricostruzione post bellica. Correva veloce quella locomotiva sui binari tracciati dal capitale statunitense. Attraverso un intenso sfruttamento della classe operaia successivo all’epurazione delle avanguardie rivoluzionarie realizzato con i massivi licenziamenti degli anni ’50, nel giro di pochi anni la produzione dell’acciaio avrebbe trainato il Bel Paese nel boom economico degli anni ’60, ma parallelamente avrebbe contribuito al riarmo dell’occidente sotto l’egida americana, alimentando una guerra senza fine giunta fino ai giorni nostri. Corea, Vietnam, e poi Guerra del Golfo, Belgrado ’99, Afghanistan 2001, Iraq 2003, senza contare la militarizzazione dell’intera Europa, prona alla logica della guerra fredda anti URSS ed ora asservita alla logica della “guerra infinita” e allo “scontro di civiltà” propagati dall’amministrazione Bush.
Quel giorno, a Terni, Luigi Trastulli e gli operai delle acciaierie scesero in piazza per opporsi alla stipula del patto Atlantico della nascente NATO, che, in barba alla fresca Costituzione e con il ricordo ancora vivido della tragedia bellica, impegnava l’Italia a farsi suddito ubbidiente e a trasformare l’Italia in una gigantesca testa di ponte dell’imperialismo U.S.A. contro l’URSS, proiettata sul mediterraneo, al controllo del petrolio e del Medio Oriente.
Quel giorno gli operai di uno dei più importanti poli siderurgici d’Italia, non scesero in piazza per i propri bisogni, nonostante l’inferno della fabbrica che caratterizzava la quotidianità delle loro vite. Al contrario compresero che il loro lavoro stava per essere piegato al servizio della guerra, non solo quindi sviluppo ma armi, in un connubio inscindibile tra espansione del capitale e logica della guerra inevitabile.
Quel giorno lo Stato non esitò a farsi assassino, per spaventare e reprimere, pronto a coalizzare tutte le forse reazionarie e fascistoidi che nella storia del nostro paese saranno mobilitate ogni volta che verranno messe a nudo le contraddizioni del potere e rivendicati i diritti fino in fondo.
Quel giorno è oggi, da allora tutto è cambiato ma è anche in qualche modo uguale.
Oggi che assistiamo ad un attacco indiscriminato al lavoro, ai salari, ai diritti (primo tra tutti quello di sciopero) e alle tutele in nome della deregolamentazione, del libero mercato o della “crisi”.
Oggi dopo anni di riduzione della spesa pubblica e di svendita dei beni comuni per fare cassa, s’immettono in un sol colpo miliardi pubblici per salvare le banche transnazionali dalla crisi che lo loro stesse hanno creato speculando.
Oggi che si smantella la spesa sociale, con un passo indietro di decenni, ma si investe massicciamente nelle spese militari e nella sicurezza, creando un allarme interno ed esterno che non serve altro che a delegittimare ogni movimento sociale, ogni sacrosanta resistenza alle pulsioni autoritarie di una democrazia in decomposizione.
Oggi come allora, le grandi mutazioni del capitale, prima espansive, ora di crisi, si accompagnano con la saldatura tra pochi interessi privati e rilancio del militarismo, con il peace keeping a senso unico (vedi Libano 2006), con la guerra preventiva inventata da Bush ma sposata anche dai “progressisti” sotto il nome di polizia internazionale.
Oggi come allora, anche a Terni il 21 marzo 2009 scenderemo in piazza, nell’ambito del programma internazionale di mobilitazione contro l’intensificazione della NATO e le basi militari, lanciato dal World Social Forum di Belem e dalla rete NO WAR.
Non per commemorazioni rituali, ma per strappare la memoria dalle celebrazioni mistificate che chiamano “morti per la pace” le esecuzioni “involontarie” di uno Stato troppo spesso al servizio dei potenti e avverso all’autodeterminazione degli individui, allora come oggi.
Allora come oggi, perché nel ricordo del 17 marzo del 1949 e delle molte altre “morti della NATO” che tra il ’49 e il ’51 colpirono il vasto movimento di protesta dei lavoratori in tutta Italia, come in quelle successive degli anni ’70 ed ’80, delle stragi di stragi di stato e delle esecuzioni di compagni/e, abita la memoria e la lotta del nostro presente.
martedì 10 marzo 2009
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